Quello che resta (canzone)
Lascia che sia, lascia che sia
non lo contrastare,
alla fine è questo cielo della sera
quello che resta, i rumori delle cose lontane
e questo colore pallido e luminoso insieme
acceso e bruno nello stesso tempo.
Alla fine quello che resta sono i rumori
delle cose lontane, che si fanno dolci, che passano,
alla fine quello che resta è questo nostro passare,
essere passati e dover ancora passare,
questo rumore il fondo come il mormorio di un ruscello
o un chiacchiericcio sommesso, che ti concilia il sonno.
Partire dal fondo: questo mi sembra il miglior modo per parlare di Cieli celesti, l’ultimo libro di poesie di Claudio Damiani. Il volume, pubblicato da Fazi editore, raccoglie numerosi lavori del poeta, componimenti che vanno a costituire un’opera particolarissima, di cui non è semplice parlare poiché non è semplice coglierne il significato più profondo. Partire dal fondo, si diceva: è così, poiché il componimento riportato in apertura di questa recensione è posto tra gli ultimi del volume ed è proprio tale lirica a dare il titolo alla sezione conclusiva dell’opera. Quello che resta è la quinta sezione dopo: Cieli celesti, La comunità, Cieli di notte, Dove siete tutti? e Schiavi di Dio. Denominazioni emblematiche, pensate come aiuti che guidino il lettore nel suo viaggio all’interno del testo; un testo che non esito a definire un’opera “unica”, cioè non spezzettabile nelle singole liriche che la costituiscono, ma da fruire tutta insieme, dalla prima all’ultima pagina.
Che cos’è dunque Cieli celesti?
Che cos’è dunque Cieli celesti? Un qualcosa che sta a metà tra un canzoniere e un trattato filosofico. Strano? Sì, ma non troppo. L’operazione di Damiani infatti è comprensibile soltanto se si pone attenzione a cogliere all’interno della sua poesia gli echi (più o meno evidenti) della tradizione letteraria italiana e soprattutto (greco) latina.
Riprese evidentissime, citazioni quasi letterarie, ma anche riproposizione di un generale “modo” di fare poesia.
“Riverso sul lettino in terrazzo
guardo il cielo azzurro
azzurro di un azzurro fitto.”
Questa è la condizione iniziale, enunciata nei primi versi del primo componimento della raccolta, ed è da questa condizione contemplativa che nascono tutte le liriche successive, atte ad esprimere quello che il poeta si è trovato a elaborare: una riflessione generale sul cosmo e sugli altri esseri viventi, sugli altri esseri tutti che condividono con l’uomo l’esistenza nell’universo. Una poetica di parole semplici, fatta di termini comuni, specialistici o perfino gergali: “macchina”, “quark”, “fighi”, “che palle!” sono solo alcuni esempi. Termini semplici in una struttura semplice, quasi una conversazione.
La comprensione dell’opera di Damiani
È questo un importante indizio che deve orientare il lettore nella comprensione dell’opera di Damiani: in Cieli celesti il poeta ci propone una sorta di rivisitazione moderna di quella che era la satira della tradizione latina e, soprattutto oraziana. Quel tono conversazionale che alla satira veniva dagli esametri, Damiani lo riproduce scegliendo una sintassi chiara, che gli permetta di affrontare i medesimi temi “alti” di cui già gli antichi conversavano mantenendo, nel contempo, un tono quasi prosastico. Emblematica di questa tendenza è La comunità, (il componimento cosi come la sezione nel suo complesso). L’impressione di una raccolta sempre “in bilico” tra prosa e poesia è confermata anche dal macro-dato costituito dal fatto che Cieli celesti è un prosimetro: a componimenti lirici si alternano brani di pura prosa. Orazio, poi, non è certo un autore che viene in mente “per caso” a chi si accosti a quest’opera di Damiani:
Monte Soratte, se ti guardo con il mio tempo
tu sei sempre stato e sempre sarai
ma se ti guardo con un tempo più lungo
anche tu morirai
diventando completamente piatto
ogni giorni infatti diminuisci un poco
e verrà il giorno che non ci sarai più.
Lo stesso Soratte immortalato nella sua fissità all’interno delle Odi oraziane viene ora inserito all’interno dello sguardo cosmico di Damiani, un occhio capace sempre, partendo dall’osservazione di un pezzo di cielo, di andare a ragionare su tutto ciò che su quel pezzo di cielo si affaccia, e su tutto ciò che sotto e dentro e sopra quel cielo è passato nel corso dei millenni. Così, anche l’imponente Soratte è destinato a passare, a finire, riunendosi a quell’unità cosmica in cui il presente non esiste:
[…] allora anche il tempo presenteè in relazione al passato e al futuro
e non potrebbe esistere senza di loro
e quindi il passato e il futuro
esistono, in qualche modo, anche ora
e tutti i morti e tutti i non nati, esistono ancora, esistono già
si legge un centinaio di pagine dopo, nella sezione Schiavi di Dio. All’interno di questa macrostruttura sono poi individuabili distici o gruppi di componimenti caratterizzati, magari, dalla presenza del medesimo interlocutore il quale molto spesso è un essere generalmente inanimato o animale: così alberi, gatti e perfino il Monte Soratte diventano precise individualità con cui conversare. L’umanità invece si esprime nella voce dell’io poetico, entità che approfitta della notte come momento per riflettere sulla “battaglia” e sulle armature che ciascun uomo indossa ogni giorno per difendersi dall’asprezza della quotidianità, oppure che pone attenzione alle cose quotidiane: gli uccelli che cantano in cielo, le nuvole dalla forma cangiante, la posizione degli alberi.
Il poeta è mostrato come colui che
Il poeta è mostrato come colui che (potremmo dire parafrasando Pascoli): vede tutto ciò che tutti gli altri vedono ma nessuno avrebbe mai fatto notare. Nasce così Cieli celesti, quasi un trattato filosofico fatto per immagini, quasi un tentativo di riscrivere la grande lirica latina in termini e concetti del terzo millennio. Pare quasi impossibile non sentire “Dum loquimur fugerit invida aetas: carpe diem, quam minimum credula postero” (Orazio ode I,11)dietro versi come:
Che cosa succederà domani
tu non lo puoi sapere
per questo sei nelle sue mani
e non ti puoi liberare”
Nasce, dunque, Cieli celesti e riceve un titolo che esprime che cosa ha compreso il poeta (e noi che gli abbiamo fatto compagnia silenziosi) con il suo stare sdraiato sul lettino del terrazzo: la consapevolezza che “alla fine è questo cielo della sera / quello che resta”: ovvero che il cielo e il suo “scorrere azzurro” sono gli unici elementi costanti in questo mondo che passa sotto i nostri occhi, che il cielo è l’appoggio su cui riflettere su ciò che è stato, che è e che sarà.
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